Friday, November 24, 2017

Nero su nero - Leonardo Sciascia

Un estratto dall'opera Nero su nero (1979) di Leonardo Sciascia. Versione italiana originale.


(Leonardo Sciascia)

Nella raccolta del Pitrè, i proverbi che consigliano diffidenza verso gli uomini e gli animali di pelo rosso sono questi (che traduciamo): «Rosso è malo pelo»; «Rosso, faccia di Giuda»; «Rosso maligno»; «Rossi, né porci né gatti» (e tanto meno uomini e donne, si capisce); «Di pelo rosso, né gatti né cani»; «Se a casa animali hai da tenere, / di pelo rosso né porci né cani»; «Due furono i rossi fedeli: Gesù Cristo e la vitella di Sorrento». Pitrè annota: «Nella tradizione popolare Gesù Cristo era di pelo che tirava al rosso», ma non dice nulla della vitella di Sorrento associata a Cristo nella fedeltà.

Si tratta di una vitella leggendaria o di una vitella di razza particolare, che si riteneva proveniente da Sorrento? Aggiunge poi una strofetta, con la quale i fanciulli palermitani usavano motteggiare i loro compagni dai capelli rossi: «Rosso maligno / attaccati al legno / tieniti forte / che passa la morte»; e riporta uguali o corrispondenti proverbi napoletani, sardi, toscani, veneti, lombardi e quello medioevale, «Si ruber est fidelis, diabolus est in coelis», che pone l'impossibile fedeltà dei rossi e nemmeno consente l'eccezione di Gesù Cristo e della vitella di Sorrento. Peraltro Carducci, segnando come nefasta l'ascesa di Cristo al Campidoglio, ne ricordò le «rosse chiome»: come stigma, rifacendosi al sentire popolare, di un uomo che non poteva essere che nefasto.

«Omu signaliatu, guardatinni» dice ancora un proverbio siciliano: uomo segnato da un difetto fisico naturale, guardatene. Si crede cioè che la natura dia i suoi stigmi, a distinguere i buoni dai malvagi, così come una volta i tribunali condannavano i delinquenti al marchio sulla fronte, all'amputazione della mano, al taglio delle orecchie o del naso. Solo che la malvagità dei segnati da un difetto naturale è potenziale e non attuale; e se e quando si fa attuale, si ha come una verifica, una conferma. Ma i capelli rossi non sono un difetto; e dunque l'avversione di cui sono oggetto bisogna considerarla una sorta di superstizione razzistica dei popoli mediterranei, d'altra parte mai pervenuti a forme di razzismo cosciente, teorizzato, «scientifico».

«Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi: ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone...». Aveva i capelli rossi perché era cattivo; non era cattivo, diventato cattivo, a causa dei capelli rossi - cioè perché considerato segnato, stigmatizzato, e quindi allontanato e confinato, dai bruni tra i quali si era trovato a nascere e a vivere e che conferivano a una vicenda genetica, tra loro sparutamente insorgente, il carattere di una presenza e rivelazione del male. Che è un po' lo stesso discorso che, diceva Shaw, si fa per i negri: li si costringe a fare i lustrascarpe, e poi si dimostra la loro inferiorità col fatto che non sanno fare altro che i lustrascarpe. Si irride e si maltratta un ragazzo perché ha i capelli rossi; e quando il ragazzo accumula sufficiente rancore, si avvilisce e incattivisce, si vendica come può - ecco la dimostrazione che i rossi sono sempre e naturalmente cattivi.

«Come al solito, il signor Lepic vuota il carniere sul tavolo. Due pernici. Félix, il fratello maggiore, le segna su una lavagnetta appesa al muro. È il suo compito. Ciascuno dei ragazzi ha il proprio. La sorella Ernestine scortica e spenna la selvaggina. Quanto a Pel di carota, egli è specialmente incaricato di finire gli animali feriti. Deve questo privilegio alla ben conosciuta durezza del suo arido cuore». L'orrore che Pel di carota ha per questo suo compito, il ribrezzo, fa sì che egli sia maldestro e atrocemente prolunghi l'agonia delle pernici. Ma la signora Lepic, sua madre: «Non fare la sensitiva; per ora stai assaporando la tua gioia». A operazione ultimata, Félix ed Ernestine gridano: «Oh che boia! che boia!»; e il signor Lepic esce disgustato. Non meno disgustata, e ancora una volta avendo avuto prova del sadismo di quel suo figlio dai capelli rossi, la signora Lepic dice: «Guarda come le ha conciate!».

Che Jules Renard abbia raccontato in Poil de carotte la storia della sua infanzia, è risaputo - benché manchi, e forse anche in Francia, uno studio che affronti l'opera narrativa (non soltanto Poil de carotte, ma anche Les cloportes) al Diario, alla corrispondenza, ai documenti e alle testimonianze sulla vita dello scrittore. Perché ad un certo punto, leggendo Renard, per il mondo familiare che segnò di incancellabile trauma la sua vita, viene una sorta di pietà o di ansietà di giustizia; o quanto meno il desiderio di vedere le cose per come oggettivamente stavano - sempre, beninteso, con quel tanto di approssimativo e di incerto che è in ogni tentativo di ricostruire non solo le cose lontane ma quelle stesse di cui siamo stati o siamo testimoni.

Vogliamo cioè dire che la domanda: possibile che le cose stessero effettivamente così?, spesso, leggendo il Diario, ci assale. E, di conseguenza, il dubbio che Renard abbia ingigantito e deformato, che la sua esasperata sensibilità e visionaria, la sua «diversità», abbiano ritratto come anormale e feroce una situazione umana e familiare indubbiamente dura ma del tutto normale nel mondo contadino, nella Francia rurale di un secolo addietro. E c'è da sospettare che Poil de carotte, «un libro di cui si può davvero dire che non è un regalo da fare alla propria famiglia», come Renard scriveva a sua sorella Amébe, abbia come catalizzato una immensa tragedia familiare: il suicidio del padre, l'immatura fine del fratello, il più che probabile suicidio della madre.

Comunque, certo è che mai riconosciuto dai suoi «diverso» per quel che aveva dentro di sensibilità e di pensieri, di poesia, di bisogno d'amore, Renard fu subito riconosciuto e relegato nella «diversità» dei capelli color carota, nel «malpelo». E una situazione simile, anche se rovesciata in un di più di vezzeggiamenti e di cure nell'ambito familiare, in una più blanda e scherzosa irrisione fuori, è forse nel primo germe della novella di Verga Rosso Malpelo. Così totalmente oggettiva, così «impersonale»: eppure la «diversità» atroce di Malpelo deve in qualche modo discendere da quella del bambino dai capelli rossi che Verga era stato. E diciamo era stato poiché, come qui accade, era di quei rossi che con gli anni cominciano a dare nel castano, e infine lo diventano del tutto. Falsi castani o falsi rossi, come indifferentemente si dicono. A cinquant’anni, «è un bell'uomo elegante, dai folti capelli grigi e dai baffi ancora castagni» (Ojetti), ma a venti era alto, magro, delicato, gracile - e rosso (dalle fotografie giovanili si direbbe biondo).

Quasi nessuno ci ha fatto caso. Di un Verga rosso ci parlò parecchi anni fa un vecchio catanese che lo conobbe; e ne parla D.H. Lawrence - «con grandi baffi rossi» - in quel saggio che doveva fare da introduzione alla versione in inglese del Mastro don Gesualdo. A parte il dettaglio dei baffi: la cosa più bella che sia mai stata scritta su Verga.

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